Velino Tour


Quando arriviamo al Valico delle Chiésole, la notte ha già steso la sua immensa coperta scura sulla terra silenziosa e fredda. Lasciamo l’auto nello slargo a destra del nastro d’asfalto, quindi scendiamo e scarichiamo i materiali per la notte. Tiriamo un sospiro di sollievo: l’aria è immobile, quindi non avremo da temere fastidiose raffiche di vento durante la nostra permanenza in tenda. Minuscoli cristalli di ghiaccio ricoprono le pietre e l’erba secca su cui ci accingiamo a stendere il catino; li vediamo luccicare sotto i deboli raggi luminosi delle lampade frontali che indossiamo. Inarchiamo la paleria ed issiamo la camera, che rivestiamo con il soprattelo; poi fissiamo l’intera struttura al terreno conficcando, non senza fatica, i picchetti nel suolo gelato. Per migliorare l’isolamento termico della camera, solleviamo e tendiamo il soprattelo legandone i lati ad arbusti, massi e persino alla barra portapacchi dell’auto; Filippo (solitarywolf61) realizza nodi e manovre con maestria e rapidità, mentre io (Marcovaldo) arranco un po’. Terminiamo le operazioni appena in tempo, proprio mentre sento che il gelo sta penetrando attraverso i guanti, irrigidendomi le dita. Anche il cielo è disseminato di cristalli luminosi e ballerini. Ci soffermiamo per un po’ con il naso all’insù, nuotando con lo sguardo nel maestoso fiume d’argento celeste che scorre sopra le nostre teste: le sue sponde sono le due sagome nere dell’Orsello e del Puzzillo, ed incredibilmente numerose sono le costellazioni che emergono dai suoi flutti lattiginosi. Volgendomi ad est riconosco, prima fra tutte, la clessidra di Orione con il suo contenuto di sabbia di stelle. Stanotte risalta particolarmente, quasi a ricordarci dello scorrere del tempo; in effetti, manca poco più di un’ora alla mezzanotte. Ci affrettiamo a trasferire nella tenda il vestiario e gli accessori che ci saranno utili al risveglio, fissiamo la sveglia alle 5.00 e ci rintaniamo nei nostri caldi sacchi a pelo invernali. Velino tour* Nelle terre alte del Velino La mia prima notte sulle alture del Velino passa in un battibaleno. Allo scoccare delle 5.00, Filippo abbandona il giaciglio ed esce dalla tenda. Mentre respiro l’aria densa d’umidità, sbircio fuori e vedo a malapena un bagliore alle spalle del Monte Rotondo, sull’orizzonte orientale. Provo a temporeggiare, crogiolandomi nel tepore del sacco a pelo, ma il freddo ha presto la meglio e ridesta i miei sensi. Seguo l’esempio di Filippo e nel giro di qualche minuto ho già completato la vestizione. È il momento di rifocillarsi: Filippo ha allestito un angolo-cucina tra due massi nei pressi dalla tenda, ed il fornello da campeggio sta già riscaldando l’acqua per il tè. La tazza calda è un toccasana per le mani gelate, così come la dolce bevanda è corroborante per lo stomaco e lo spirito: ora siamo davvero pronti per affrontare i numerosi saliscendi che ci attendono. Smontiamo la tenda, ultimiamo la preparazione degli zaini, riponiamo gli accessori superflui nel bagagliaio dell’auto ed alle 6.30 ci mettiamo in cammino. Identifichiamo l’attacco del sentiero n. 5 a pochi metri dal luogo del nostro attendamento. Una ripida traccia, indicata da sbiaditi segni rossi e azzurri, invita a salire sul terrazzino boscoso che si affaccia sul valico, prosegue per alcuni metri parallelamente alla strada e poi piega a S, immergendosi nella faggeta. Le torce frontali ci aiutano ad individuare i segnavia giallo-rossi che, con l’aiuto della penombra mattutina, si mimetizzano nel soffice tappeto di foglie caduche. Terminata la breve serie di tornanti, ancora qualche minuto di cammino in direzione sud-est e siamo fuori dal bosco: lo ritroveremo solo diverse ore dopo, sulla via del ritorno. L’uscita all’aperto risveglia le ultime forze sopite. D’ora in poi cammineremo di gran lena, provando a realizzare il giro pianificato con entusiasmo nei giorni precedenti. Sulla lunga dorsale del Monte Puzzillo si susseguono numerose cime. La prima è il Monte Fratta (1878 m): lo raggiungiamo mentre i primi raggi del sole disegnano i contorni ondulati della piana di Campo Felice. Mi guardo intorno e già pregusto i panorami dei quali avrei goduto di lì a poco: lontano, dietro di me, i Monti Reatini, con l’arcuato profilo del Terminillo in bell’evidenza; a sinistra, alle spalle del Cefalone e dell’Ocre, inizia ad intravedersi l’imponente muraglia del Gran Sasso, con la Laga e i Sibillini che fanno capolino sull’orizzonte; a destra il cuore selvaggio del massiccio del Velino, con Murolungo e Morrone in veste mattutina. La seconda cima è il Monte Cornacchia (2010 m), primo “duemila” della giornata, la cui vetta è separata dal Fratta mediante una ridotta insellatura ed alcuni piacevoli passaggi a cavallo del filo di cresta. La terza è l’anticima nord del Puzzillo (2128 m), da questo versante particolarmente slanciata, ed al cui cospetto il Cornacchia è poco più di un dosso. La crestina che risaliamo per guadagnarne la sommità è un divertente slalom tra roccette ed erba che si sviluppa su un’esile traccia indicata da radi segnavia bianco-rossi. Ancora qualche minuto di salita e sotto di noi si aprono i Piani di Puzzillo, dorati dal sole nascente; li aggireremo da ovest ad est. Con lo sguardo seguo l’ideale linea che collega il tondeggiante Morretano al teatro roccioso del Costone, e questo alla Cimata di Puzzillo e di Pezza; sullo sfondo il Velino staglia nel cielo terso la sua piramide ammantata di neve. Prima di scendere al Passo del Morretano ed avventurarci su quelle creste, è d’obbligo una visita alla vetta del Puzzillo. Il suo omino di vetta raccoglie un’accozzaglia di paletti e tavolette di legno in frantumi, una croce abbozzata e, dulcis in fundo, una targhetta metallica che io non esito ad inchiostrare per imprimerne il segno sul mio prezioso diario di viaggio. Mentre mi soffermo ancora qualche minuto ad ammirare il mare di nuvole che ricopre la Piana di Navelli, Filippo va alla ricerca di un passaggio agevole per il Passo del Morretano, 200 metri più in basso. Lo raggiungo e inizio a seguire le traiettorie che traccia sul pendio erboso grazie al suo fiuto da sci alpinista, ed in breve ci ritroviamo sulla testata della Valle di Morretano. Filippo suggerisce di deviare a ovest seguendo il sentiero che, in lieve salita, taglia a mezzacosta il versante settentrionale della Cima del Morretano: così facendo risparmieremo energia e toccheremo La Torricella (2071 m), che prevedevamo di scavalcare sulla via del ritorno. Mi affido alla sua guida e, distratti dai nostri discorsi, quasi non ci accorgiamo di essere già alla meta, culmine di una dorsale secondaria che digrada a nord-ovest, verso i Prati di Ceraso. Da qui possiamo osservare l’intera dorsale del Puzzillo appena percorsa: siamo soddisfatti, sono le appena le 9.00 ed abbiamo già coperto una parte consistente del percorso previsto. Ritorniamo sui nostri passi per poche centinaia di metri, quindi deviamo per raggiungere la Cima del Morretano (2098 m), dove ci soffermiamo appena. Il cammino riprende con ritmo incalzante verso sud: scendiamo al Passo della Torricella ed in men che non si dica siamo già sulla cima a nord del Passo del Puzzillo, di recente ribattezzata Cima del Campitello (2131 m). La lucente muraglia striata del Costone Occidentale è ora più vicina, e cattura i nostri sguardi; ma ciò che più ci intriga è la sua frastagliata cresta settentrionale, la cui percorribilità pare fortemente dubbia. Ci appostiamo in osservazione per diversi minuti: Filippo sfodera il binocolo e prova ad individuare una linea di salita tra le rocce spruzzate di neve, ma senza risultato; un po’ più a destra, però, s’intravede un traccia che attraversa il circo detritico, congiungendosi alla cresta nord-ovest al di sopra dei 2100 m. Che fare? Tentare un avvicinamento e valutare il da farsi sul posto, rischiando un eventuale insuccesso che costringerebbe ad una lunga deviazione imprevista, oppure puntare con sicurezza alla Selletta Solagne, collegata al Costone dal sentiero n. 1A? La risposta è silente ma chiara sin da subito, tant’è che puntiamo con decisione alla base del circo detritico. Ci avviciniamo tenendo lo sguardo fisso di fronte a noi, a caccia di indizi incoraggianti, ma inizialmente non abbiamo successo. Solo quando l’ombra del Costone ci investe, ricoprendoci con il suo mantello gelido, la traccia da seguire si fa evidente, addirittura quasi banale. Ci ritroviamo ad avanzare in un ambiente che all’improvviso s’è fatto severo: non c’è traccia di erba e terra, solo pietre in frantumi e croste di neve; i blocchi rocciosi sommitali incombono alla nostra sinistra. È un trasformismo davvero affascinante, quello dell’Appennino. È uno di quei motivi che più mi ha fatto innamorare di queste montagne. Raggiungiamo uno spicchio di terra inondato di sole, Filippo non vedeva l’ora di scrollarsi di dosso quell’aria umida. Da qui ci accorgiamo di essere già in cresta, la cima rocciosa del Costone Occidentale è a pochi passi; la raggiungiamo dopo un ultimo strappo in ripida salita. Siamo all’incirca a metà del giro, ma la gran parte del dislivello è stata superata; possiamo concederci un intermezzo panoramico su questo pulpito roccioso. Montagne a perdita d’occhio, in ogni direzione, quante non ne avevo mai viste prima; e, soprattutto, nessuna traccia di antropizzazione, tutto appare completamente selvaggio: dalla corrugata mole del Sirente all’armonioso Lago della Duchessa, dal profondo Vallone dei Briganti al vertiginoso strapiombo sulla Fossa del Puzzillo. È un’esperienza davvero ritemprante, che da tempo sognavo di vivere in queste terre alte. Riprendiamo a camminare mantenendoci quasi sull’orlo della Vena Stellante, l’appariscente cresta che unisce le due vette del Costone. Ci concediamo numerose pause per affacciarci tra le sue fenditure, che aprono finestre nel vuoto alla nostra sinistra; Filippo pregusta un corpo a corpo con queste pareti verticali, elogiandone l’elegante geometria. Sul versante opposto si distende lo scenario maestoso del Velino, impreziosito da un velo di neve che crea morbide sfumature di seta sulle sue pendici ghiaiose. Ritroviamo i segnavia bianco-rossi, abbandonati dall’ormai lontana Torricella: sono quelli del sentiero n. 1A. Ormai siamo in vista della croce di vetta del Costone. Distinguiamo chiaramente anche alcuni escursionisti sulla cima, certamente saliti lassù dal Rifugio Sebastiani; superiamo gli ultimi metri di dislivello aggirando qualche roccetta e ci uniamo a loro. Notiamo con sollievo che sono saliti senza ramponi; noi, che ne eravamo sprovvisti, temevamo che la neve ghiacciata sul versante settentrionale della montagna avesse reso impraticabile il sentiero che collega il rifugio e la vetta. Una coppia di Roma si sofferma a scambiare qualche battuta con noi: si parla e si sogna di salite sulle grandi montagne alpine, Cervino, Monte Bianco, Monte Rosa... I miei pensieri abbandonano presto quelle cime lontane per trasferirsi su quelle che riesco ad abbracciare con lo sguardo. Sgombro la mente, respiro a pieni polmoni e m’immergo nell’istante presente. Da quassù riesco a distinguerne i tanti dettagli che sono inafferrabili nel turbinio del trantran quotidiano. Scendendo al Rifugio Sebastiani ci rendiamo conto che un vivace calpestio anima la via che si snoda all’ombra del Costone. Gruppi di escursionisti di ogni età avanzano sul pendio chiazzato di bianco, puntando alla vetta. Il clima mite della giornata ha attirato tanti in quota; individuiamo numerosi puntini mobili in risalita dal Piano di Pezza. Se fino a quel momento la solitudine delle creste aveva dominato incontrastata, ora sembra quasi di trovarsi su un affollato sentiero alpino. Mentre sostiamo al rifugio, pervaso dagli aromi del pranzo in preparazione, fa capolino persino un paio di cicloescursionisti. Puntiamo alle ultime vette della giornata, poste all’estremità occidentale della lunga dorsale compresa tra Campo Felice e Piano di Pezza. Un sentiero evidente ci guida all’attacco della prima cresta, un susseguirsi di calcari frantumati. Un tratto particolarmente sconnesso, fatto di macigni incastrati e separati da profondi vuoti, richiede buone doti da equilibristi. Giungiamo sulla Cimata di Puzzillo (2140 m) surriscaldati dalla fatica e dal sole, che ora è alto nel cielo. Sono quasi le 12.30, orario che inevitabilmente desta i primi languori di stomaco. Ma prima di concederci uno spuntino preferiamo completare la sequenza di vette con la Cimata di Pezza (2132 m), l’undicesima toccata dall’inizio dell’escursione. Indugiamo per una manciata di minuti su quella punta arrotondata, scorrendo la visuale sulla giogaia di cime che unisce la Punta Trento al Costone della Cerasa; quindi ci gettiamo a rotta di collo giù per il pendio, immergendoci nella Valle del Puzzillo. Decidiamo di ritardare ulteriormente la merenda: sappiamo che ci attende ancora un ultimo tratto di salita per accedere al Passo del Morretano. Restiamo d’accordo che ci fermeremo solo dopo averlo superato. Non perdiamo altro tempo e così cavalchiamo spediti i dossi erbosi, tappezzati qua e là di pino mugo, che rivestono l’ampio fondovalle. Filippo fila a tutta velocità, mi soffermo a scattare un paio di foto e non lo vedo quasi più. Accelero anch’io e lo ritrovo mentre ci avviciniamo alla sella erbosa che già ci aveva accolti poche ore prima. Scegliamo la fascia assolata per sbocconcellare un panino e goderci una pennichella. Recuperiamo fiato ed energie preziose per l’ultima tappa del cammino. Sono circa cinque i chilometri che percorriamo lungo la Valle di Morretano, una culla erbosa solitaria che, nella sua parte bassa, s’immerge nella fresca faggeta della Giumenta. Ricorda vagamente la Val Chiarino per gli irregolari risalti calcarei, miniature di quelli del Monte Corvo, che chiudono la visuale sulla destra, e per la cornice frontale che racchiude rilievi dalle forme armoniose. Sorpassiamo diversi gruppetti di escursionisti a passeggio sul comodo sentiero, oltrepassiamo un grande abbeveratoio in pietra che sorge al centro di una dolina poco profonda, e ben presto ci ritroviamo a Prato Agapito, un bel tappeto verdeggiante a pochi metri dalla strada. Alcuni ragazzi hanno deciso di godersi qui un festoso picnic. Un ultimo passaggio su massi tondeggianti rivestiti di muschi e foglie ci riporta direttamente al punto di partenza. Altre auto fanno compagnia alla Panda di Filippo, a conferma della nutrita presenza odierna in queste valli. Guardiamo l’orologio, sono appena le 15.00: ci congratuliamo a vicenda per la bella impresa, realizzata grazie alla passione e la tenacia che hanno mosso i nostri passi. Filippo riorganizza subito l’angolo-cottura e mette sul fuoco il pentolino per il tè. Ce l’eravamo ripromessi al mattino: una tazza a colazione ed un’altra per la merenda pomeridiana. Anche stavolta la tisana è un ottimo ristoro perché l’aria è umida, il terreno ancora indurito dal gelo. A quanto pare il sole non ha ancora disteso a dovere i suoi raggi sul Valico delle Chiésole, e probabilmente non ci riuscirà più, per oggi. Sta già iniziando a calare sull’orizzonte, e fra poche ore sarà di nuovo sotto la sua coperta di stelle. * Velino tour: è con questo altisonante titolo a cui io e Filippo ci riferivamo, in tono autocanzonatorio, per il nostro ambizioso progetto, nelle numerose e-mail organizzative scambiate nei giorni precedenti la sua realizzazione. Ecco perché l’ho scelto per titolare il racconto di questo modesto vagar per monti.